Il mistero della Croce
Riflessioni su un evento centrale della fede
«avere (...) il senso del peccato, è la cosa pedagogicamente più importante della vita
perché ci spalanca al Dio vero.
Il peccato è comportarsi come i signori della propria vita,
e riconoscerlo è avvicinarsi al fatto che
la misura, il criterio, la signoria della vita è il mistero di Dio.» (L.Giussani)
Dio ha scelto di rivelarsi a noi, e di salvarci, con un cammino che passa attraverso la Croce.
Qual è il senso della Croce? Perché Cristo è morto su una Croce?
La “responsabilità” della Croce
I. Un male voluto dall'uomo ...
«bramano di conoscere le mie vie,
come un popolo che pratichi la giustizia
e non abbia abbandonato il diritto del suo Dio» (Is, 58)
La Croce non è un evento che Cristo abbia in alcun modo chiesto ai suoi aguzzini (come secondo alcuni autori deve aver pensato Giuda): la responsabilità della Sua uccisione ricade interamente su coloro che ne hanno chiesto e concesso la morte (la folla di Gerusalemme, istigata dai sommi sacerdoti, e l'allora governatore romano della Palestina, Ponzio Pilato), e indirettamente ricade su tutto il genere umano, il cui peccato è la vera causa della Crocifissione.
- Le autorità religiose ebraiche avevano tutta la possibilità di capire che Egli non era un mentitore, e che la sua divinità non contraddiceva realmente niente di quanto il Mistero aveva fino ad allora rivelato.
- La folla che si lasciò istigare dalle autorità religiose aveva potuto vedere quali testimonianze di Sè Cristo avesse dato, con i miracoli da Lui compiuti e l'autorevolezza della Sua umanità.
- Pilato non aveva motivo reale di temere che la regalità attribuitasi da Cristo fosse davvero un pericolo per lo Stato romano, dato che il Suo regno non era definito «di questo mondo», concorrenziale a quello di “Cesare”.
Dal punto di vista umano, quindi, la Croce è una estrema ingiustizia, che il Figlio di Dio subisce.
II. ... che Dio ha saputo usare per un Bene più grande
Tuttavia, la Sua condanna alla Croce non è un evento che abbia “spiazzato” Cristo: non è un imprevisto. Per tutta la sua vita, o almeno, secondo alcuni, man mano che acquistò coscienza di essere Dio, inviato dal Padre, Egli ebbe presente che tale era la sua missione. Come dice un inno: "Cristo al morir tendea".
Diventava sempre più evidente ad esempio, man mano che la Sua missione tra gli uomini procedeva, come lo stesso popolo eletto non Lo riconosceva per quello che Egli era, e non era disposto a convertirsi al Padre; le dispute con le autorità religiose ebraiche in particolare erano un crescendo polemico: e tutto ciò non poteva che portare a uno scontro finale, che per la elevatezza della posta in gioco non poteva che essere mortale. Ma, poiché da parte Sua, totale era la obbedienza al Padre, tale scontro finale non poteva che apparirgli come preciso volere di Quello, e non come esito di propri (inesistenti) errori.
Egli inoltre avrà di certo trovato in molti passi dell’Antico Testamento (ad esempio quelli che la liturgia ci fa meditare in Quaresima ) una profezia della sua morte sacrificale.
La sua Croce non si configura come l'interruzione o come il fallimento della sua missione, ma precisamente come il suo compimento. Creando il mondo la Santissima Trinità (come efficacemente raffigura la bellissima icona di Rublëv, qui vicino riprodotta) aveva in qualche modo previsto di far culminare nel sacrificio del Figlio la propria autocomunicazione alla sua creatura.
Il calice del sacrificio è al centro dei Tre.
I. Perché gli uomini hanno voluto crocifiggere Cristo
Perché Cristo venne odiato al punto da essere condannato a una ingiusta condanna?
Motivi ufficialmente addotti dai suoi nemici
- perché violava le regole esteriori di un giudaismo legalistico e formalistico (guariva in giorno di sabato, ad esempio),
- perché suscitava turbamento nelle folle, offrendo pretesto a una repressione romana (cfr. dopo la resurrezione di Lazzaro, Gv),
- più ancora, perché, pur pretendendo di essere il Messia “non risponde all’immagine di Messia che ci si aspettava” (cfr. Giussani, All’origine della pretesa cristiana, p. 105),
- ma soprattutto perché si faceva eguale a Dio .
Motivi reali
Essi sono riconducibili al fatto che Gesù
a) svela all’uomo il suo limite
Fa impattare l'uomo con ciò che egli preferirebbe censurare:
- il suo limite conoscitivo: pensavano di sapere già tutto di Dio, e invece Cristo rivela loro quanto limitata e distorta fosse la loro conoscenza del Mistero
- il suo limite etico:
l'uomo, e il popolo eletto, è ben lungi dall’essere sé stesso, dall’essere fedele al Disegno creativo e redentivo
- ai Giudei in particolare svela quanto fosse falsa la loro alleanza con Dio, ridotta in termini formalistici e ritualistici
- lo svela con un linguaggio crudo e diretto: “guai voi”, “ipocriti”, “razza di vipere”, “figli della prostituzione”, “sepolcri imbiancati”;
ora, chi vive nelle tenebre, vuole restare nelle tenebre e odia la Luce;
b) chiede all’uomo una dipendenza totale
Chiede infatti una dipendenza stringente, perché legata a Lui, Uomo-Dio che si manifesta in una concretezza non trionfale.
Su questo punto vi sono molti spunti di meditazione nella Scrittura (ad esempio Sap, 2, 1. 12/22), specie nel vangelo di San Giovanni: Cristo è la Luce, la Verità piena e totale, per questo chi vuole vivere nella tenebra, nell'errore (chi vuole impostare la propria vita secondo un criterio incentrato su di sé, sulla propria meschina misura) Lo odia, perché la Luce manifesta la malvagità delle tenebre.
In particolare Cristo, sempre negli episodi narrati da Giovanni, sfida apertamente e duramente quella parte delle autorità religiose ebraiche che era chiusa nei propri pregiudizi, e aveva fatto della religione una forma di cui si poteva sapere tutto. Mentre Cristo mostra loro quanto ipocrita fosse la loro posizione, e quanto colpevole la loro chiusura alla infinita e insondabile profondità del Dio vivo, sempre più grande di ogni schema umano.
In sintesi, insomma: la Croce è, dal punto di vista dell'uomo, conseguenza del peccato, cioè della irragionevole ribellione dell'uomo al Mistero a Cui deve tutto.
II. Perché il Figlio di Dio si è lasciato crocifiggere
«Nessuno ha un amore più grande di questo:
dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13)
Perché era prevista la Croce, dall'eternità?
Tommaso d'Aquino
S.Tommaso sostiene (nella Summa Theologiae, IIIa, q. 46) che:
- era conveniente che Cristo patisse per il genere umano (a.1), non di una necessità “di coazione”, ma di una necessità “di fine”:
- infatti, benché Dio potesse liberare il genere umano in altro modo che mediante la passione di Cristo (a.2), come dice anche S.Agostino, De Trinitate, XIII l.,
- non vi era modo migliore (convenientior) che la passione di Cristo (a.3), in quanto essa:
- mostra all’uomo quanto Dio lo ami, predisponendo l'uomo a ricambiare tale amore, salvandosi,
- ci da un “esempio di obbedienza, umiltà, costanza, giustizia e di tutte le altre virtù”,
- merita non solo la liberazione dal peccato, ma anche “la gloria della beatitudine”,
- esorta massimamente l'uomo a preservarsi immune dal peccato, vedendo a quale prezzo è stato salvato,
- e conferisce più dignità all’uomo, perché in essa l’Uomo Gesù sconfigge meritatamente il diavolo (più che non in seguito ad un atto, in qualche modo arbitrario, di Onnipotenza divina)
Duns Scoto
Giovanni Duns Scoto, distanziandosi più che Tommaso dalla linea di S.Anselmo (che nel Cur Deus Homo aveva creduto di trovare una sorta di necessità giuridica della espiazione della colpa commessa dai progenitori, non effettuabile da altri che dal Figlio di Dio fatto Uomo) insiste invece sulla libertà della scelta di Dio: al primo articolo della 46a quaestio il così è stato soprannominato Giovanni Duns ScotoDoctor subtilis rispondeva che non esisteva per Dio alcuna necessità, né di coazione, né di fine, che Cristo patisse per noi. Pur convenendo poi con S.Tommaso e altri Dottori della Chiesa che non esisteva modo più conveniente per operare la nostra salvezza che la Croce, per motivi molto simili a quelli, riportati, del cioè Tommaso d'AquinoDoctor Angelicus.
Don Giussani
Don Luigi Giussani, come Duns Scoto, si distanzia dalla linea (giuridica) anselmiana, e dice che non era necessario che patisse in Croce per salvare l'uomo (come S.Tommaso, nel citato art. 2 di STh, III, q.46):
«per salvarci Cristo poteva dire sol tanto: “Padre, perdona loro”, bastava questo. Mentre era sdraiato a mangiare l’ultima cena, poteva dire: “Padre, perdona loro”. Bastava questo, anzi bastava che dicesse: “Sì, Padre, manda Me” ed entrasse nel seno di Maria, diventando uomo.» (Si può vivere così, p. 275)
In sintesi la Croce, ex parte Dei, ha più valenze:
1. Manifestare compiutamente quanto il Mistero tenga a noi e alla nostra libertà, rivelando l'intima natura di Dio, che è amore trinitario: «nessuno ha amore più grande di chi dà la vita per i propri amici» e con ciò smentire il maggior argomento antiteistico del Diavolo, che Dio sia un Padrone tirannico, mentre è Amore rispettoso della libertà creata.
2. Insegnare la via della pazienza e dell’umiltà, della totale spogliazione della propria misura come la via più propria a Dio, a un’umanità superba e impaziente, violenta e vendicativa. E con ciò, come dice S.Tommaso, «esorta massimamente l'uomo a preservarsi immune dal peccato, vedendo a quale prezzo è stato salvato».
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immagini della Passione
la Croce e noi
come il mistero del male ci tocca
il male “oggettivo”
Dire Croce è dire peccato, e quindi male. Che “tonalità emotiva” è giusto avere davanti al male? Che peso è giusto riconoscere al male? Davanti a queste domande ci possono essere due grandi tipi di risposta: uno è quello che trova espressione in Bernanos, per cui il male fa tremendamente male e deve essere preso con grande serietà, l'altro è quello che trova espressione soprattutto in Chesterton, che guarda al male anche con un'ironia non priva di divertimento, perché chi fa il male, si fa male, e si rende, poco o tanto grottesco e ridicolo.
Una via di mezzo tra i due è in Dostoevskij, nella cui opera il male da un lato porta anche devastazioni profonde, ma dall'altro è comunque meno potente del Bene e lascia in chi lo fa il marchio del ridicolo (come ne I fratelli Karamazov il personaggio di Fëdor Pavlovic, ad esempio nel suo colloquio con lo starec, nel libro II, cap. II, Un vecchio buffone).
Una percezione sintetica tra Bernanos e Chesterton è anche in Lewis e Tolkien. Ch.S.Lewis scrive cose molto opportune ne Le lettere di Berlicche, dove il male, “bernanosianamente”, è in agguato ad ogni angolo, ma tempo stesso, “chestertonianamente”, non è poi così difficile smascherarlo: basta guardare fino in fondo la realtà; e infatti ne Il grande divorzio i “cattivi” sono inconsistenti e patetici.
Tolkien a sua volta, prende sì sul serio il male: nella sua trilogia Sauron uccide e devasta, ma vincere il male è possibile, con la semplicità di chi aderisce alla realtà; sono infatti proprio gli Hobbits, piccoli e materialmente deboli, a portare alla sconfitta del Male. Per ritrovarsi poi a festeggiare con la più grande naturalezza e semplicità. Con una tonalità emotiva cioè, alla fine, più lieta che angosciata.
Anche in Dante troviamo una sintesi tra componente bernanosiana e chestertoniana: il male fa certamente piangere, fa paura, e capita che Dante svenga dallo spavento, nel suo viaggio all'Inferno; non manca però anche una componente comica: il male fa anche ridere , la sua è una falsa, grottesca solennità.
Anche qui giova tener presente il concetto guardiniano di tensione polare (Gegensatz): la linea bernanosiana e quella chestertoniana non si escludono, ma si completano a vicenda. Poi dipende dal temperamento di ognuno. La cosa importante è che per non essere sopraffatti dal Male non si faccia leva sulla propria forza, ma sula forza di un Altro. Nel quale soltanto si può non soccombere al Male.
il “nostro” male
Verso il proprio peccato, però, non sarebbe giusto avere un atteggiamento “chestertoniano”: in questo senso nella sua Regola San Benedetto esortava a confessare nella preghiera a Dio ogni giorno, con lacrime e gemiti i propri peccati passati«mala sua praeterita cum lacrimis vel gemitu coditie in oratione Deo confiferi» e «fare in modo da emendarsene per il tempo della vita che resta»«de ipsis malis de caetero emendare».
Se è vero che non sta a noi risollevarci con le nostre forze, possiamo però far operosamente affidamento sulla forza di un Altro, Che non possiamo far finta di non aver contristato in mille modi.
Per questo l'atteggiamento giusto è quello che faceva dire a Sant'Ambrogio: «dammi, Ti prego, le lacrime di Pietro, non voglio l'allegria del peccatore»«da, quaeso, lacrymas Petri, nolo laetitiam peccatoris».
Tuttavia il peccato non esaurisce la questione: la Croce è anche segno di quanto il Mistero tenga a noi, a salvarci. Cioè è segno della Sua misericordia, più potente del peccato creaturale. Anche qui allora gioca un po' la necessità di una tensione polare tra contrizione e fiducia: non certo nel senso che uno possa ridere del proprio peccato, fare come se niente fosse, minimizzarlo, ma nel senso che la Misericordia del Mistero, a cui ci si può affidare con cuore contrito, è comunque più grande e più potente di qualsiasi nostro male. Per questo se S.Giovanni della Croce, davanti all'amica Santa Teresa d'Avila che si era permessa il lusso di mangiare qualcosa di gustoso, Le aveva detto, rimproverandola «se pensassimo a quanto sono grandi i nostri peccati, mangeremmo meno spesso cibi gustosi», la mistica di Avila gli aveva, non a torto, replicato che «se pensassimo a quanto è potente la Misericordia di Dio, ne potremmo mangiare più spesso.»
Il punto è che si abbia un autentico senso del peccato: che non è quello di aver sbagliato nei confronti di qualcosa di impersonale (una legge), per cui il punto sarebbe “mi dispiace perché io sono stato imperfetto”, “non ho osservato la legge”; piuttosto l'autentico senso del peccato è aver contristato ed essersi mostrato ingrato e diffidente verso un Tu, verso Chi ci ha amato al punto da morire in Croce per noi. Lo sguardo insomma non deve fermarsi a sé, ma deve andare al Tu di Cristo. Il problema non è la mia perfezione, ma il rapporto con Lui, guardando al quale uno può sempre rialzarsi, o meglio lasciarsi rialzare. Su questo don Giussani ha sempre detto cose preziose, ad esempio nelle Tischreden.
🎬 Filmografìa
- Uno dei migliori films sulla Passione di Cristo è The Passion. di Mel Gibson (2004), con l'audio nella lingua allora parlata in Palestina (e ovviamente i sottotitoli nelle lingue moderne). Un film che riproduce con estrema attenzione alla cruda esattezza storica la vicenda degli ultimi giorni della vita di Cristo fino alla Crocifissione.
- Non è privo di afflato religioso però anche il racconto della Passione ne Il Vangelo secondo Matteo, di Pier Paolo Pasolini (1964).
🎼 Multimedia
- Eccellente è la Passione secondo Matteo di J.S.Bach. Ne diamo qui sotto un assaggio (“Wir sitzen uns”):
- Ma imperdibile è anche lo Stabat mater di Dvorak, di cui diamo un breve assaggio (brano iniziale):
- Imperdibili sono anche i Responsorii di Da Victoria: potete ascoltarne uno, il Caligaverunt:
- Don Giussani teneva molto anche a dei canti tradizioni sulla Passione, come Cristo al Morir tendea:
- O come O cor soave:
- O come Dulcis Christe, Deus:
📖 Testi on-line
- Ulteriori approfondimenti sulla Passione potete trovarli sul Blog, cliccando sulle parole-chiave passione di Cristo.
- I brani evangelici relativi alla Passione, comparati.
- Appunti non ufficiali da meditazioni di don Giussani sulla Via Crucis.
📚 Bibliografia essenziale
La bibliografia sul mistero della Croce è sterminata: impossibile anche solo tentarne una sintesi.
Vediamo allora qualcosa su un personaggio importante nella vicenda della crocifissione di Cristo, Giuda, il discepolo che lo tradì, consentendone l'arresto in luogo e orario tali da non creare problemi di sollevazione popolare in sua difesa.
- Su Giuda si è cimentato, tra gli altri, Giuseppe Lanza Del Vasto, in un romanzo dal titolo Giuda. Lanza del Vasto dipinge Giuda come il condensato di tutto il male possibile e immaginabile, con tratti non di rado discutibili.
- Una visione ben diversa è quella presente nel romanzo di Luca Doninelli, Fa' che questa strada non finisca mai, ed. Bompiani 2014: il suo Giuda è attraversato da dubbi e conflitti interiori, e l'autore ci lascia nell'incertezza se egli alla fine si sia salvato o no (infatti è lui la voce narrante, dopo la sua morte, quindi si trova o all'Inferno o in Purgatorio/Paradiso, ma Doninelli non lo dice).
- Su Giuda ha scritto anche Bruno Musso: Giuda Iscariota, Le Mani - Microart's Edizioni, Recco (GE), 2000.
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